Dashcam in auto: quando è legale e come non violare la privacy

Le dashcam – videocamere di piccole dimensioni montate su auto o moto – stanno diventando sempre più popolari per documentare incidenti, atti vandalici o episodi di pericolo sulla strada. Ma il loro utilizzo solleva interrogativi legali: sono sempre lecite? Possono essere utilizzate come prova in un contenzioso? E quali sono i limiti imposti dalla normativa sulla privacy?

La normativa sulla sicurezza stradale

Il Codice della Strada non vieta l’uso delle dashcam, ma impone alcune restrizioni. L’articolo 141 stabilisce che il conducente deve sempre mantenere il pieno controllo del veicolo, senza ostacoli alla visuale o limitazioni nei movimenti. Questo significa che la dashcam deve essere installata in modo da non compromettere la sicurezza alla guida. Se posizionata in maniera inadeguata, può comportare una sanzione da 41 a 169 euro, oltre al rischio di una riduzione dell’indennizzo da parte dell’assicurazione in caso di incidente.

Per i motociclisti, il problema è meno rilevante: le dashcam montate sul casco o sul manubrio non ostacolano la visuale, rendendo l’utilizzo generalmente privo di rischi sanzionatori.

Dashcam e privacy: cosa dice la legge

L’utilizzo di una dashcam comporta la registrazione di immagini di terzi, il che solleva questioni legate alla protezione dei dati personali. In base alla normativa vigente, i filmati non possono essere diffusi pubblicamente senza il consenso delle persone riprese. Se i video vengono condivisi – ad esempio sui social o con soggetti terzi – occorre oscurare volti e targhe, per evitare violazioni della privacy che potrebbero portare a sanzioni.

Tuttavia, l’uso delle registrazioni in caso di sinistro è consentito: il proprietario della dashcam può consegnare i filmati alle autorità o alla propria compagnia assicurativa come elemento probatorio.

Dashcam e valore probatorio: possono essere usate in tribunale?

Le dashcam non vanno confuse con la scatola nera, regolamentata dall’articolo 145-bis del Codice delle Assicurazioni Private. Mentre la scatola nera è considerata una prova legalmente vincolante salvo prova contraria, le immagini registrate da una dashcam rientrano nella disciplina dell’articolo 2712 del Codice Civile e hanno valore probatorio solo se non vengono contestate dalla controparte.

Se l’altra parte in un contenzioso non solleva dubbi sulla veridicità del video, il filmato può essere utilizzato come prova documentale. In caso contrario, il suo valore giuridico potrebbe essere compromesso e sarà il giudice a valutare l’attendibilità delle immagini.

Conclusioni

L’uso delle dashcam in auto è legale, ma deve rispettare precise regole. Per evitare sanzioni o problemi con l’assicurazione, è fondamentale installarle correttamente, senza compromettere la visibilità del conducente. Inoltre, i filmati registrati devono rispettare la normativa sulla privacy e, pur avendo un valore probatorio, non offrono la stessa certezza giuridica delle scatole nere. In caso di contestazioni, spetta al giudice valutare l’efficacia delle immagini come prova.


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Guida e droghe: il nuovo Codice della Strada viola la Costituzione?

Il recente intervento legislativo sull’articolo 187 del Codice della Strada introduce una svolta problematica: la punibilità della guida dopo l’assunzione di droghe prescinde completamente dall’accertamento di un’alterazione psicofisica del conducente. La nuova norma configura la sola presenza di sostanze nell’organismo come elemento sufficiente per l’integrazione del reato, eliminando qualsiasi verifica concreta della pericolosità della condotta.

Secondo la giurisprudenza costituzionale, ogni fattispecie penale deve rispettare il principio di offensività: un comportamento è punibile solo se lesivo di un bene giuridico tutelato. Tuttavia, la riforma trasforma un illecito di pericolo in una presunzione assoluta di colpevolezza, ignorando la necessaria correlazione tra reato e danno.

Il nodo dell’offensività

Il principio di offensività opera su due livelli:

  • In astratto, impone al legislatore di configurare reati che tutelino beni giuridici costituzionalmente rilevanti.
  • In concreto, richiede al giudice di valutare se la condotta abbia effettivamente arrecato un pregiudizio.

Con la nuova formulazione dell’art. 187 C.d.S., la punibilità non dipende più da uno stato di alterazione ma esclusivamente dalla rilevazione di tracce di sostanze. Tuttavia, è scientificamente provato che la presenza di metaboliti nel sangue o nelle urine non indica necessariamente una compromissione delle capacità di guida.

Un modello punitivo irragionevole?

La riforma, giustificata con la volontà di semplificare gli accertamenti e rafforzare la deterrenza, rischia di sanzionare indiscriminatamente anche chi non rappresenta alcun pericolo per la sicurezza stradale. Un conducente perfettamente lucido, ma con tracce di sostanze assunte giorni prima, sarebbe punito alla stregua di chi guida in stato di alterazione.

Questo automatismo normativo apre scenari critici, non solo in termini di razionalità della norma, ma anche per la sua compatibilità con i principi costituzionali sanciti dagli articoli 13, 25 e 27 della Costituzione. La disciplina finisce per punire non una condotta pericolosa, ma una scelta di vita, trasformando la norma in uno strumento di controllo sociale piuttosto che di tutela della circolazione.


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Prima casa in comunione: responsabilità solidale in caso di decadenza dal bonus

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 2505/2025, ha stabilito che, in caso di revoca dell’agevolazione “prima casa”, la maggiore imposta dovuta grava solidalmente su tutti i comproprietari, anche su chi detiene una quota infinitesimale del bene.

Il caso
Una contribuente, proprietaria solo dell’1% di un immobile acquistato in comunione con il figlio (titolare del restante 99%), si è opposta all’azione di recupero del Fisco che pretendeva da lei l’intero importo della maggiore tassazione dovuta per la decadenza dal bonus. La Cassazione ha respinto il ricorso, affermando il principio di responsabilità solidale tra i comproprietari.

Il quadro normativo
La revoca del beneficio fiscale avviene quando l’immobile, acquistato con l’agevolazione “prima casa”, viene rivenduto entro cinque anni senza riacquisto, entro un anno, di un altro immobile da destinare a residenza principale. In base all’art. 57, comma 1, del D.P.R. 131/1986, tutti gli acquirenti in comunione sono solidalmente obbligati al pagamento dell’imposta, delle sanzioni e degli interessi.

Il principio affermato dalla Cassazione
Il Supremo Collegio ha chiarito che la responsabilità solidale persiste indipendentemente dalla percentuale di proprietà detenuta. Il fatto che la contribuente avesse solo l’1% dell’immobile non la esime dal pagamento dell’intera somma richiesta dall’Agenzia delle Entrate. La ripartizione delle quote ha rilevanza solo nei rapporti interni tra i comproprietari, ma non nei confronti del Fisco.

Questa decisione conferma un orientamento rigoroso in materia di decadenza dai benefici fiscali, ribadendo che la comunione del bene comporta anche la condivisione degli obblighi tributari, senza eccezioni legate alla proporzione della proprietà.


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Digitalizzazione e diritto societario: in vigore le nuove norme UE

Dal 30 gennaio 2025 è ufficialmente in vigore la Direttiva UE 2025/25, un pacchetto normativo che segna un’importante svolta nel diritto societario europeo. L’obiettivo è chiaro: favorire la digitalizzazione delle informazioni aziendali, rendendo più semplice e sicuro l’accesso ai documenti societari e riducendo gli oneri burocratici, soprattutto per le PMI.

La normativa modifica e integra le direttive 2009/102/CE e 2017/1132, potenziando l’uso degli strumenti digitali per rafforzare la trasparenza e l’affidabilità dei dati societari. Il cuore della riforma è l’interconnessione tra i registri delle imprese europee attraverso il sistema BRIS (Business Registers Interconnection System), che consentirà una condivisione più efficiente delle informazioni tra gli Stati membri.

Le principali novità

  1. Controllo preventivo e uniformità delle verifiche
    La Direttiva introduce un controllo obbligatorio su atto costitutivo e statuto delle società di capitali e di persone, garantendo standard uniformi di legalità.
  2. Maggiore pubblicità per le imprese
    Viene esteso l’obbligo di pubblicazione dell’oggetto sociale nei registri nazionali, facilitando l’accesso alle informazioni economiche e commerciali.
  3. Certificato digitale UE per le società
    Le imprese potranno ottenere un certificato elettronico riconosciuto in tutta l’Unione, valido come prova della loro esistenza giuridica.
  4. Procura digitale UE
    Un nuovo modello standardizzato, disponibile in tutte le lingue ufficiali, semplificherà la rappresentanza legale delle società all’estero, eliminando la necessità di apostille e traduzioni giurate.
  5. Trasparenza nei gruppi societari
    Le società madri saranno tenute a pubblicare bilanci consolidati, accessibili gratuitamente tramite il sistema BRIS.
  6. Interconnessione con altri registri europei
    Il BRIS verrà collegato ai registri dei titolari effettivi (BORIS) e delle insolvenze (IRI), aumentando la trasparenza finanziaria.
  7. Principio “once-only”
    Le imprese che apriranno succursali in altri Stati membri non dovranno più ripresentare documenti già registrati altrove, riducendo tempi e costi burocratici.

Un’implementazione graduale

Gli Stati membri avranno tempo fino al 31 luglio 2027 per recepire la Direttiva, garantendo un’armonizzazione graduale ed efficace. Il bilanciamento tra digitalizzazione e sicurezza dei dati sarà cruciale per il successo di questa riforma, destinata a semplificare il panorama normativo europeo e a rafforzare la competitività delle imprese nel mercato unico.


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Giustizia digitale: innovazione e garanzie per i cittadini

L’anno giudiziario della giustizia amministrativa si è aperto con un dibattito cruciale sul rapporto tra innovazione tecnologica e garanzie processuali. Durante la cerimonia inaugurale a Palazzo Spada, il presidente del Consiglio di Stato Luigi Maruotti ha rivendicato i successi della digitalizzazione, mentre il presidente del Consiglio Nazionale Forense (CNF), Francesco Greco, ha richiamato alla prudenza, sottolineando la necessità di un confronto costante per evitare che l’eccesso di riforme comprometta la certezza del diritto.

Un processo sempre più digitale

Negli ultimi anni, la giustizia amministrativa ha attraversato una fase di trasformazione profonda, accelerata dall’emergenza pandemica. Il ricorso a strumenti digitali come le videoudienze e le piattaforme telematiche ha ridefinito il modo di intendere il processo, garantendo continuità alle attività giudiziarie anche nei momenti più critici.

Maruotti ha evidenziato i risultati raggiunti, ricordando che la giustizia amministrativa ha ricevuto il prestigioso Premio Agenda Digitale 2024 per il miglior progetto innovativo nell’ambito delle amministrazioni centrali. «Si conferma una visione lungimirante e un costante impegno nel governare l’innovazione con il supporto di tecnici competenti», ha dichiarato il presidente del Consiglio di Stato, sottolineando la necessità di un’integrazione sempre più avanzata tra diritto e tecnologia.

L’appello dell’avvocatura: innovazione sì, ma con equilibrio

Accanto ai riconoscimenti, però, si sono levate anche voci di cautela. Francesco Greco, intervenuto in rappresentanza dell’avvocatura, ha ribadito che la transizione digitale deve procedere senza sacrificare i principi costituzionali, in primis il diritto di difesa e il giusto processo. «L’eccesso di riforme e di riforme delle riforme non giova alla certezza del diritto», ha avvertito il presidente del CNF, sottolineando l’importanza della stabilità normativa e della prevedibilità delle regole per gli operatori della giustizia.

Greco ha inoltre segnalato l’avvio, lo scorso 15 gennaio, della sperimentazione del nuovo Portale della giustizia amministrativa, che diventerà pienamente operativo dal 1° giugno 2025. Pur non avendo riscontrato criticità rilevanti, ha suggerito un periodo di transizione più lungo per permettere agli utenti di adattarsi al nuovo sistema di accesso tramite SPID e CIE, evitando disagi e incertezze operative.

Un equilibrio da preservare

Il confronto tra magistratura e avvocatura ha evidenziato il delicato equilibrio tra efficienza e diritti fondamentali. Se da un lato la giustizia amministrativa si conferma all’avanguardia nell’innovazione digitale, dall’altro resta essenziale garantire un accesso stabile e sicuro al sistema giustizia, tutelando il ruolo degli avvocati e, soprattutto, dei cittadini.

L’auspicio, condiviso da tutti gli attori coinvolti, è che il progresso tecnologico continui a migliorare il funzionamento del processo amministrativo, senza mai perdere di vista il principio cardine della giurisdizione: la tutela dei diritti.


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Delega in mediazione: le nuove regole introdotte dalla Riforma Cartabia

La presenza personale della parte in mediazione è fondamentale e, in linea di principio, necessaria. Tuttavia, la Riforma Cartabia e il successivo Correttivo hanno introdotto una disciplina chiara sui casi in cui è possibile delegare un avvocato o un terzo alla partecipazione, stabilendo requisiti stringenti per la validità della delega.

Quando e come si può delegare

L’articolo 8, comma 4, del D.Lgs. 28/2010, modificato dalla Riforma Cartabia, prevede che la delega sia ammessa solo per giustificati motivi. Il delegato deve essere una persona informata sui fatti e dotata di procura speciale e sostanziale, con poteri specifici che gli consentano di compiere atti essenziali alla mediazione, come disporre del diritto, conciliare, transigere o accettare la proposta del mediatore.

Se il delegato è l’avvocato della parte, è necessaria una procura speciale con potere di rappresentanza: la sola procura alle liti non è sufficiente.

Le novità sulla forma della delega

Dal 25 gennaio 2024, il Correttivo ha introdotto il comma 4-bis all’art. 8 del D.Lgs. 28/2010, specificando con precisione i requisiti formali della delega, che deve essere:

  • conferita per iscritto;
  • contenere gli estremi del documento di identità del delegante;
  • sottoscritta con firma non autenticata dal legale;
  • nei casi di atti soggetti a trascrizione, redatta e sottoscritta con firma autenticata da un pubblico ufficiale.

Questa modifica recepisce una prassi già diffusa negli Organismi di mediazione, dove si eseguiva una verifica dei poteri del delegato prima di avviare la procedura.

Un chiarimento normativo a tutela della riservatezza

La norma non rappresenta un aggravio burocratico, ma si inserisce nel contesto di rafforzata segretezza della mediazione, garantendo che solo soggetti legittimati possano partecipare agli incontri. Il legislatore ha così stabilito regole precise per l’utilizzo della delega, assicurando che la presenza di terzi sia conforme ai doveri di riservatezza e alle esigenze della procedura conciliativa.


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Iscrizione all’elenco speciale per gli avvocati degli enti pubblici: il parere del CNF

Il Consiglio Nazionale Forense (CNF) ha espresso il proprio parere in merito all’iscrizione degli avvocati dipendenti di enti pubblici nell’elenco speciale, un passaggio ritenuto essenziale per l’esercizio delle loro funzioni legali. Il parere n. 49/2024, pubblicato il 6 gennaio sul sito del Codice deontologico, risponde a un quesito posto dall’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Modena riguardo alla necessità e alla portata di tale iscrizione, con particolare riferimento ai casi in cui essa non sarebbe obbligatoria.

Un obbligo normativo per garantire autonomia e indipendenza

La questione si fonda sull’articolo 23 della legge n. 247/2012, che disciplina la professione forense e prevede l’iscrizione obbligatoria nell’elenco speciale per quegli avvocati che operano esclusivamente nella gestione degli affari legali di enti pubblici. Questa disposizione ha lo scopo di assicurare il rispetto dei principi di autonomia e indipendenza, elementi essenziali per l’esercizio della professione forense.

L’interpretazione del CNF: nessuna eccezione al vincolo di iscrizione

Nel parere espresso, il CNF ha ribadito che l’iscrizione all’elenco speciale rappresenta una condizione imprescindibile affinché gli avvocati dipendenti possano esercitare la professione e svolgere tutte le attività previste dalla normativa, inclusa la rappresentanza legale degli enti. Il Consiglio ha sottolineato che, in assenza di tale iscrizione, il professionista non può spendere il titolo di avvocato né svolgere alcuna attività che implichi l’esercizio dello ius postulandi.

La pronuncia del CNF conferma quindi l’obbligatorietà dell’iscrizione per tutti gli avvocati che lavorano negli enti pubblici, dissipando eventuali dubbi sulla possibilità di esenzioni o deroghe.


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L’AI Act entra in vigore: il regolamento europeo per la gestione dell’intelligenza artificiale e della digitalizzazione

A partire da ieri, 2 febbraio 2025, sono entrate in vigore le disposizioni del Regolamento europeo sull’intelligenza artificiale (AI Act) che regolano i sistemi AI a rischio inaccettabile e l’alfabetizzazione digitale. Pubblicato ufficialmente il 12 luglio 2024, il Regolamento 1689/2024 segna un punto di svolta nella regolamentazione dell’AI, seguendo le orme del GDPR (Regolamento 679/2016), che ha segnato la legislazione europea sui dati.

Questa nuova norma si inserisce all’interno di un quadro normativo europeo che, negli ultimi anni, ha concentrato l’attenzione sulla protezione dei dati e la regolamentazione della digitalizzazione, come dimostrato da altri regolamenti fondamentali: il Digital Governance Act (DGA, 2023), il Data Act (DA, 2023), il Digital Services Act (DSA, 2022) e il Digital Markets Act (DMA, 2022). L’AI Act, quindi, non solo si concentra sulla gestione dell’uso dei dati per sviluppare algoritmi di intelligenza artificiale, ma si propone anche di stabilire un mercato digitale sicuro e affidabile per tutti i cittadini europei.

In questo contesto, il regolamento mira a garantire che l’intelligenza artificiale venga utilizzata in modo responsabile e non causi danni o violazioni ai diritti degli individui. L’Unione Europea, con l’introduzione di questo regolamento, non si limita a rispondere agli sviluppi tecnologici, ma cerca di instaurare una normativa coerente per tutti gli Stati membri, creando un equilibrio tra innovazione e sicurezza.

I tempi di attuazione del regolamento sono diversificati, con una finestra che va dai 6 ai 36 mesi, con priorità per i settori a rischio elevato. Questo intervallo è stato studiato per permettere un’implementazione graduale, affinché le nuove normative possano essere adottate in modo efficace e tempestivo.


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Sim swap fraud: responsabilità dell’operatore telefonico nella frode a danno di una correntista

Il Tribunale di Napoli Nord ha emesso la sentenza n. 5062 del 30 dicembre 2024 in un caso di frode informatica ai danni di una correntista, vittima di una truffa mediante la tecnica della Sim Swap Fraud. La corte ha stabilito che la responsabilità ricade sull’operatore telefonico, in quanto la truffa non sarebbe potuta avvenire senza l’intervento fraudolento sulla SIM della cliente. Secondo il giudice, la condotta negligente della compagnia telefonica, che non ha verificato adeguatamente l’identità del richiedente la sostituzione della SIM, esclude la responsabilità della banca nel danno subito dalla correntista.

Il caso in sintesi

La cliente, titolare di un conto corrente bancario, ha denunciato una sottrazione di denaro dal proprio conto, avvenuta tramite l’ottenimento fraudolento di un duplicato della sua SIM telefonica. La banca, dopo aver contestato la causa del danno, ha chiamato in causa la compagnia telefonica, sostenendo che la truffa fosse stata possibile solo per colpa dell’operatore telefonico, che non aveva verificato in modo adeguato l’identità del richiedente la sostituzione della SIM. La compagnia telefonica ha risposto chiedendo il rigetto delle richieste nei suoi confronti, sostenendo che la responsabilità fosse della banca.

La decisione del tribunale

Il Tribunale ha definito il caso come una tipica frode “Sim Swap”. I truffatori avevano duplicato la SIM della cliente, ottenendo accesso ai sistemi di home banking e completando operazioni non autorizzate. Il Giudice ha sottolineato che le frodi di questo tipo si caratterizzano per l’utilizzo illegittimo degli strumenti di pagamento elettronici, con l’aggravante del furto d’identità telefonica. Questo consente di aggirare il sistema di autenticazione a doppio fattore, che in questo caso veniva eluso grazie alla sostituzione della SIM, con il furto della password temporanea (OTP) inviata via SMS.

Riparto dell’onere prove

Il Tribunale ha chiarito la divisione degli oneri probatori tra le parti. In particolare:

  • Per la banca: la responsabilità si configura se non può dimostrare di aver adottato un sistema di protezione adeguato (“autenticazione forte”) e se non può provare che la correntista sia stata colpevole in maniera grave nel custodire le proprie credenziali. Nel caso in questione, non è stata riscontrata colpa grave da parte della cliente, che ha subito il furto d’identità senza alcuna negligenza.
  • Per la correntista: la cliente non è stata ritenuta colpevole di negligenza, poiché non aveva segnalato tempestivamente un malfunzionamento della SIM, né richiesto un blocco precauzionale del sistema di home banking. Tuttavia, il Tribunale ha evidenziato che la cliente, appena accortasi dell’addebito fraudolento, si è immediatamente recata in banca per chiarire l’accaduto.
  • Per l’operatore telefonico: la compagnia telefonica ha una responsabilità diretta, in quanto non ha effettuato una verifica adeguata dell’identità del richiedente, né ha controllato l’autenticità della denuncia di smarrimento. Questo ha consentito ai truffatori di ottenere la SIM duplicata e completare la frode.

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Codice della Strada, la Cassazione: “Il guidatore risponde per i passeggeri senza cintura in caso di incidente”

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 46566/2024, ha reso chiari i doveri di vigilanza del conducente sui passeggeri, sancendo che il mancato controllo sull’uso delle cinture di sicurezza da parte dei trasportati può comportare gravi conseguenze penali per il guidatore, oltre a obbligarlo al risarcimento dei danni.

Il caso: il Tribunale di Frosinone e la sua assoluzione

Il caso ha avuto origine da un tragico incidente avvenuto di notte su una strada extraurbana nel quale Mevia, la conducente, aveva perso il controllo del veicolo dopo l’improvviso attraversamento di un cane randagio. Il veicolo aveva urtato una recinzione, ribaltandosi e causando la morte di Tizio, un passeggero seduto sul sedile posteriore sinistro, che non indossava la cintura di sicurezza.

Il Tribunale di Frosinone aveva assolto la conducente Mevia dall’accusa di omicidio colposo, ritenendo che la velocità fosse adeguata e che la causa dell’incidente fosse un’improvvisa emergenza. Inoltre, l’assenza della cintura da parte del passeggero era stata considerata un elemento che non inficia la responsabilità del conducente.

Il ricorso e la decisione della Cassazione

Il Procuratore Generale aveva presentato ricorso, sottolineando che l’uso della cintura da parte di Tizio avrebbe potuto probabilmente prevenire il decesso. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, affermando che il conducente ha l’obbligo di vigilare affinché tutti i passeggeri indossino la cintura di sicurezza. Se un passeggero rifiuta di farlo, il guidatore deve astenersi dal partire o procedere con la marcia del veicolo.

Secondo la Cassazione, il fatto che il passeggero non indossasse la cintura non esime il conducente dalla responsabilità penale, poiché l’uso della cintura è tutelato dall’articolo 172 del Codice della Strada e, in caso di danni, la condotta del passeggero influisce sul grado di colpa, ma non interrompe il nesso causale tra l’azione del conducente e l’incidente.

Le implicazioni penali e amministrative

La sentenza segna un’importante evoluzione della giurisprudenza, evidenziando che la mancata vigilanza sull’uso della cintura di sicurezza da parte dei passeggeri può portare a responsabilità penali per il guidatore, che rischia di essere accusato di omicidio colposo o lesioni personali colpose.

In aggiunta alle conseguenze penali, la legge prevede anche sanzioni amministrative in caso di mancato uso delle cinture. L’articolo 172 del Codice della Strada stabilisce che tutti i passeggeri, tanto quelli anteriori quanto quelli posteriori, sono obbligati ad allacciare le cinture di sicurezza durante la marcia del veicolo. La violazione di questa norma può comportare una multa da €83 a €332 e la decurtazione di 5 punti dalla patente del conducente. In caso di recidiva, la sospensione della patente può variare da 15 giorni a 2 mesi.


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